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23Luglio/20
Intervista

SARA LANDO

La fotografa dal multiforme ingegno

Questa volta noi di CFFC vogliamo raccontarvi una piccola storia, la storia di quando ci si chiedeva quali fossero i limiti e le potenzialità del mezzo fotografico e quanto l'esplorazione di piste finora poco battute potesse consentire di superare la concezione classica della fotografia, arricchendola di nuove possibilità.

Di quando per puro caso abbiamo incrociato il lavoro di Sara Lando e di come questo incontro ci abbia aiutati a rispondere a queste domande e ad altre ancora.

Parliamo di un'artista di grandissima fantasia e talento, che mette a disposizione di queste sue qualità una conoscenza tecnica invidiabile. Il tutto permeato da curiosità e attenzione verso gli oggetti, le atmosfere e gli stessi esseri umani che la circondano.

Se il tributo a Garcìn del mese scorso vi è piaciuto, continuate a seguirci alla scoperta di una fotografa che non potrà lasciarvi indifferenti.

CFFC -Ciao Sara, benvenuta in CFFC. Partiremmo subito con la cosa che ci è saltata subito all'occhio sul tuo sito saralando.com: nella tua bio infatti spicca la frase: “I like individuals, I’m scared of people. I eat all my broccoli”. Ovviamente abbiamo scelto di non ignorarla. Puoi dirci cosa significa e se ha un impatto sul tuo lavoro?

Sara Lando

S.L. -Sono sempre stata una persona estremamente timida e la gente mi spaventa, soprattutto quando è in gruppo. Le dinamiche che si formano quando ci sono tante persone per me sono difficili da navigare e faticose da capire. Allo stesso tempo però le persone prese individualmente per me sono sempre affascinanti e non ho mai conosciuto qualcuno che non fosse interessante.

Anche la persona apparentemente più noiosa di solito ha un mondo di storie da raccontare, piccole stranezze magnifiche, motivazioni nascoste, particolari che la rendono unica. Siamo tutti il “tesoro" di qualcuno e io adoro scoprire quelle parti che di solito vengono riservate a chi ci vuole bene.

Credo sia per questo che ho scelto la strada del ritratto, perché mi ha permesso di creare costantemente situazioni in cui fosse socialmente accettabile fissare qualcuno ed entrare in intimità con loro.

CFFC -Sara Lando: ritrattista e mixed media artist. La poliedricità dei tuoi progetti è stimolante per chi l’osserva e porta l’osservatore ad attraversare le immagini tridimensionalmente, attraverso più livelli. Come nasce questa ricerca fotografica, quali le ispirazioni e i modelli?

S.L. -Per me la fotografia è sempre stata una delle tante possibilità espressive. Scrivo da sempre e sin da piccola mi piaceva giocare con la carta, creare collage e costruire piccole sculture che viste col senno di poi erano fondamentalmente cumuli di spazzatura.

Crescendo ho continuamente aggiunto pezzi e faccio fatica a non considerare tutte queste direzioni come delle emanazioni di una stessa cosa. Limitarmi a fare fotografia “pura” (qualsiasi cosa voglia dire) per me sarebbe come se mi chiedessero di scrivere un tema, ma senza usare mai la lettera G. Non dico che non sia fattibile, ma non credo abbia senso, se non come esercizio estemporaneo.

La maggior parte della mia ispirazione in questo senso è una continuazione di esplorazioni sui materiali che partono dai tempi dell’asilo (una delle cose che mi piace fare è stampare con la stampante da ufficio 10 copie della stessa immagine e darmi un’ora per distruggerle in dieci modi diversi), ma nel corso degli anni ho scoperto il lavoro di molti artisti che tutto sommato lavorano in direzioni che riconosco simili alla mia: su due piedi mi vengono in mente Kensuke Koike, Gilbert Garcin, Duane Michals, Dave McKean, Bo Christian Larsson, Jan Švankmajer, Saul Steinberg, Julia Soboleva, Katrin Koenning.

CFFC -La creatività e la capacità di andare oltre ciò che è direttamente visibile sono per i fotografi delle frecce al proprio arco necessarie. Quali altre frecce ha Sara Lando al proprio arco?

S.L. -Credo che in realtà andare oltre a ciò che è direttamente visibile spesso sia sopravvalutato e venga usato come scorciatoia per evitare di imparare a guardare quello che si ha davanti.

Più divento vecchia e più comincio a ritenere che sia estremamente importante analizzare il visibile, buttarcisi a capofitto, non andare per forza “oltre” la realtà, ma magari cercare di capirla, di lasciarsi alle spalle tutti gli strumenti che abbiamo imparato a usare per abbellirla e renderla più interessante e vendibile. È come se ragionassimo un po’ tutti per modelli e per nodi rarrativi, per cui quando cominciamo a fare foto cerchiamo in tutti i modi di replicare quello che abbiamo già visto in altre foto, una tensione estetica, quell’attimo decisivo di cui tanto si parla.

Però la realtà è un fiume fatto di milioni di possibilità tra un attimo decisivo e il successivo e ho l’impressione che spesso queste tasche restino inesplorate, le foto scattate in quei momenti considerate “sbagliate”. Ma perché dovrebbero esserlo? Credo che la curiosità di esplorare e la volontà di mettere in discussione tutto siano infinitamente più importanti della creatività, che tutto sommato è uno skill come un altro e si impara.

Una cosa che credo mi abbia aiutato moltissimo a crescere nel corso degli anni è la capacità di distruggere quello che faccio e di liberarmi della zavorra. Non mi affeziono ai miei lavori e non prendo come un affronto personale il fatto che possano non piacere o non funzionare in un contesto specifico.

L’altra freccia importante, quella che ha davvero fatto la differenza, è stato riconoscere l’importanza di una rete di supporto e coltivarla. Al momento è molto di moda questa versione dell’artista che si fa da solo, ma non credo sia possibile, per un fotografo. Anche quando non si lavora a uno specifico progetto in team (e succede spesso), ci sono comunque persone che ci dedicano il loro tempo, che ci sostengono, ci indirizzano e ci aiutano. Riconoscere il loro contributo ed esercitare la gratitudine credo sia importantissimo.


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CFFC -Il tuo lavoro non è solo ricerca artistica, ma anche impegno sociale. Pensando al tuo progetto “EssereUmani”, ci diresti quanto la fotografia, secondo te, può e deve farsi testimone e portavoce di realtà esposte a manomissione e strumentalizzazione?

S.L. -È un argomento non facilissimo e molto spinoso. Secondo me la fotografia è quasi sempre manomissione e strumentalizazione e non esiste una fotografia che sia in grado di riportare una verità oggettiva. Possiamo solo essere il più possibili trasparenti sul nostro punto di vista e sulle nostre intenzioni e lasciare che chi guarda le foto sovrapponga una molteplicità di visioni e si costruisca un’idea personale. È una testimonianza, appunto, e non una prova.

Ovviamente ci sono diversi livelli di manipolazione ed è particolarmente deprecabile quando viene fatta intenzionalmente per controllare un certo gruppo di persone. Mi interrogo tantissimo sul valore che può avere un progetto fotografico in cui vengono mostrate delle persone vulnerabili nell’attimo in cui sono più deboli, spesso senza che ci sia un vero consenso informato, e spesso mi chiedo quanto la scusa di farsi testimoni non sia in realtà usare la sofferenza altrui per mettersi al centro del racconto, imporre la propria visione invece di fare spazio per quella delle persone direttamente coinvolte.

Storco sempre il naso quando sento dire che un progetto serve a “dare voce a chi non ce l’ha”, perché onestamente a me pare che le persone di cui si parla di solito la voce ce l’hanno eccome, ma la gente gli parla sopra e si impossessa delle loro storie.

Io non sono una fotografa di reportage e quando ho lavorato con Casa a Colori l’ho fatto da fotografa che fa ritratti commerciali, per cui la mia intenzione era quella di fotografare le persone che gravitavano attorno all’associazione con gli stessi strumenti che avrei usato per ritrarre su commissione uno scrittore, un CEO, un modello. Ho fotografato allo stesso modo operatori, richiedenti asilo, collaboratori e ho scoperto facendolo che è una cosa che fanno in pochi, perché di solito quando si lavora con i richiedenti asilo siamo interessati al loro essere richiedenti asilo e alla pornografia del dolore che ci gira attorno.

Ho passato quasi sei ore con un traduttore a spiegare a ognuno di loro che poteva rifiutarsi di partecipare al progetto senza che questo avesse alcuna ripercussione sul loro percorso per l’ottenimento di un permesso di soggiorno e mi sono accorta di quanto facile sia ottenere un consenso da qualcuno che crede di non avere nessuna alternativa se non dirti di sì.

Col senno di poi avrei voluto spendere più tempo ad ampliare la sezione della mostra in cui sono state pubblicate le foto scattate dai ragazzi di Casa a Colori con i cellulari, perché secondo me sarebbe stato infinitamente più interessante.

Quando i miei studenti cominciano a lavorare ai propri progetti personali spesso mettiamo in discussione il fatto che possa essere lecito che siano proprio loro a raccontare quella storia, soprattutto quando non si tratta di un argomento che fa normalmente parte delle loro vite e che quindi rischiano di documentare come dei turisti.Credo che invece sia sempre valida una storia raccontata da chi la vive e che quando i fotografi cominciano a parlare di quello che è importante per loro in prima persona ne vengano fuori le cose migliori.

Non credo che ci siano argomenti che la fotografia non può trattare, anzi, ma credo che ognuno debba assumersi la responsabilità di riconoscere l’impatto che un lavoro fatto male può avere sul soggetto delle foto, e che sia necessario mettere in un progetto il tempo e il lavoro necessario per approfondire in modo adeguato, preparandosi anche a modificare quello che si sta mostrando se ci accorgiamo che stiamo lavorando sulla base di preconcetti. E credo che chi fa da filtro alla pubblicazione di certi lavori (curatori, galleristi, photo editor…) debba cercare attivamente di promuovere una moltiplicità di voci invece di rimbalzare all’infinito gli stessi punti di vista.

CFFC -Esprimersi per mezzo di immagini è un percorso tanto affascinante quanto complicato: nella tua esperienza quali errori ti hanno spronata e aiutata a migliorarti?

S.L. -L’errore di cui fatico a liberarmi e su cui lavoro da sempre è quello di non sperimentare abbastanza o di aspettare che qualcuno di esterno mi dia il permesso per fare quello che voglio fare, creativamente parlando. È come guidare col freno a mano costantemente tirato.

L’altro errore che mi ha fatto crescere molto è stato quello di mostrare le foto che credevo gli altri volessero vedere invece che quelle che volevo fare io. All’inizio è difficile combattere la sindrome dell’impostore, per cui si cerca di mostrare foto che siano tecnicamente belle e che possano essere apprezzate da altri fotografi, ma è una cosa stupida da fare, e che spesso ci rende infelici. Sono molto grata a chi mi ha dato dei poderosi calci nel sedere mostrandomi quanto fosse insensato.

Un errore molto più pratico e che ha però avuto un impatto enorme è stato credere che fosse necessario avere uno studio di un certo tipo e più attrezzatura di quella che mi serviva davvero, che ha significato un mutuo di quindici anni che sto finendo di pagare adesso. Col senno di poi avrei tranquillamente potuto iniziare con attrezzatura minima e tenendo bassi i costi fissi. A questo proposito ci tengo a dire una cosa che viene detta troppo poco: chi comincia si confronta con un’idea di cosa significhi la professione che ricava da una ricostruzione imprecisa della vita degli altri fotografi, senza magari sapere che il fotografo taldeitali, che racconta che bisogna buttarsi a seguire i propri sogni e tutti ce la possono fare, in realtà, è ricco di famiglia e non ha mai pagato una bolletta, o che il fotografo rockstar che sembra stia sempre lavorando tantissimo fa metà dei lavori gratis per mostrare sui social che sta lavorando tantissimo.

Credo che troppi pochi fotografi si preoccupino di capire come funziona la loro professione e se è vero che la parte creativa è quella divertente, credo che costruire su una base il più possibile solida sia l’unico modo di avere davvero libertà di creare.

La nostra chiacchierata con Sara termina qui e a lei vanno i più sentiti ringraziamenti per essersi concessa in maniera così trasparente alla nostra curiosità.

Sara Lando sarà presente proprio nel weekend del 25/26 Luglio con un workshop alla Biennale della Fotografia Femminile a Mantova.

Se siete curiosi di approfondire ulteriormente il suo lavoro la trovate su Instagram come @holeinthefabric, oppure potete visitare il suo sito internet saralando.com.